The Handmaid’s Tale Recensione- il romanzo di Margaret Atwood

CHE I BASTARDI NON TI SCHIACCINO…

Tutte siamo June.             
Tutte potremmo essere Difred. 

Se dovessi scegliere un periodo storico adatto alla lettura di questo libro, non potrei scegliere che l’attuale mondo nel quale vivo. Sono sommersa da informazioni, da persone che cliccano centinaia di like alla velocità della luce, da selfie viventi che vorrebbero trasformarsi in persone reali… perché oramai è così difficile sapere cosa sia effettivamente ‘reale’.      
In una società fluida, dinamica ed in continuo cambiamento, l’unica costante sembra essere la nostra capacità di riuscire ad adattarci. Perché se non lo fai, se non ti adatti, automaticamente rimani indietro. Rimani fuori. 

La Atwood, nel 1985, immaginava un mondo dove le donne sarebbero state completamente depersonalizzate, ridotte a mero strumento di procreazione coatta. Sottomesse, ridotte al silenzio, al servizio e alla mercé di uomini/padroni capaci solo di farsi servire.                  
Ancelle, Marte, Zie, Mogli, Nondonne… tutte diverse, tutte accomunate dalla stessa privazione: il diritto. 

Nel 2019, siamo abituati a combattere e ribellarci per qualsiasi cosa, tutti paladini della giustizia.     Sempre, costantemente impegnati a batterci per ‘le giuste cause’, convinti che prima di noi nessuno lo abbia mai fatto per davvero. Tutti perbenisti, tutti convinti di poter indossare elegantemente un costume da supereroe piuttosto che una maschera da ‘cattivo di turno’. L’importante, però, è che tutti abbiano un ruolo. Sempre. 

Decenni di lotte, emancipazione, reggiseni bruciati e marce per manifestare contro un mondo maschilista e patriarcale capace di strumentalizzare anche l’aria, se volesse. Nonostante tutto, nel 2019 sentiamo ancora – forte e chiaro – non un rimbombo e neppure un eco… sentiamo un boato sordo e persistente che entra nelle ossa, nelle viscere, nella mente, nel cuore.       
Un boato che sa di ‘ se l’è cercata’.         
Un boato che sa di ‘ se lei avesse indossato qualcosa di meno succinto.’             
Un boato che sa di ‘ se ci provi e poi ti tiri indietro, poi che cosa ti aspetti?’

Donne picchiate, derise, sfregiate, deturpate nell’anima e nel corpo… donne uccise. 

Nel 1985, Margareth Atwood immaginava un futuro mondo distopico nel quale le donne avrebbero perso ogni libertà, ogni forma di dignità e ogni parvenza di giustizia. Un mondo ‘a misura di maschio’ che, dal mio modesto punto di vista, non si discosta poi tanto – almeno non nelle fondamenta concettuali – dal mondo che viviamo oggi. 

Parliamo, quindi, di un racconto distopico o di un possibile futuro prossimo?

Nell’epoca di Trump, di Salvini, di Putin e di grandi militanti politici che cavalcano l’onda del dissenso e della paura, leggere ‘Il racconto dell’ancella’ rappresenta un dovere morale, civile e un diritto al quale nessuno può sottrarsi. Soprattutto se siete donne.                

Immaginate un mondo nel quale vi venisse strappato via, brutalmente e senza preavviso, ogni ancestrale forma di possibilità, un mondo dove neppure i sentimenti sono più contemplati, perché che cosa ce ne facciamo dei sentimenti, quando l’unico scopo è mandare avanti la specie?                
Un mondo nel quale sei talmente un ‘niente’, da non aver bisogno neppure del tuo nome: tanto non sei nessuno. Anzi, sei solo diqualcuno. 

“A quel tempo gli uomini e le donne si provavano l’uno con l’altra, indifferentemente, come vestiti, rifiutando tutto ciò che non andava bene.” Scriveva la Atwood, sottolineando quanto fosse facile cercare nell’altro ciò che, talvolta, non riusciamo a trovare in noi stessi. Ma è davvero così?            
Siamo davvero capaci di decidere come vivere la nostra vita? Siamo davvero liberi di intraprendere certe scelte e decisioni senza sentirci vincolati? Ci sentiamo davvero privi di costrizioni e di vincoli? Che cosa è un vincolo? 

“Sembravano in grado di scegliere. Anche noi sembravamo in grado di scegliere, allora. Eravamo una società che moriva per la troppa libertà di scelta.” 

Questo romanzo è crudo nell’intenzione, saturo di ideali e assolutamente focalizzato su un messaggio, che appare chiaro e preciso sin dalla prima parola stampata su carta. Nella frase sopra riportata, viene sottolineato come, che sia il 1985 o il 2019, la convinzione di essere liberi ci permetta di regolare le nostre scelte e le nostre azioni. 

Amiamo, tradiamo, ci abbandoniamo a fugaci atti di lussuria, siamo ambiziosi e lottiamo per ciò che crediamo realmente importante. Ma soprattutto amiamo. Tutti. Amiamo tanto. Forse troppo.        
Per gli esseri umani, amare equivale a vivere. Sentiamo addosso l’amore come forse nessun altro sentimento. E l’amore, in quanto motore che muove il mondo, spesso ci induce a prendere decisioni che magari non avremmo mai preso in circostanze differenti, ci permette di vedere la vita da differenti prospettive e, tante volte, ci fa credere cose che in realtà non sono affatto come appaiono.                    

In nome dell’amore, legittimiamo spesso comportamenti devianti, insalubri, sbagliati, sporchi.           
Molte donne, come tante crocerossine impavide, spesso combattono per cercare di ‘cambiare la persona che amano’, uomo o donna che sia. Giustificano tradimenti, azioni sbagliate e comportamenti che ledono non solo la coppia, ma spesso la persona fisica.      
Molti uomini, come tanti paladini senza macchia e senza paura, sostengono che il solo credere di provare certi sentimenti, possa essere abbastanza per avvalorare certe azioni e parole. 

L’amore non è ossessione.          
Una carezza non è uno schiaffo.                 
La possessività malata non è sinonimo di attaccamento sano.                 
Ammazzare una donna non può essere legittimato o giustificato con un “delitto passionale”. Perché se ammazzi una donna non è per troppo amore, se picchi un uomo non è perché sei ricolmo d’amore. 


Le persone affamate spesso fanno dei pessimi acquisti […] ogni cosa si realizza in un contesto, compreso il nostro modo di amare. Dobbiamo essere consapevoli dell’insufficienza pericolosa del modo in cui la nostra società concepisce l’amore, e opporci all’immaturità superficiale e frustrante nelle relazioni personali che esalta. Abbiamo bisogno di impegnarci a sviluppare rapporti personali più aperti e sinceri, più maturi di quelli che i nostri media culturali sembrano approvare, e a rinunciare all’agitazione e al tumulto emotivo per avere in cambio un’intimità più profonda. 

Nello stesso anno, 1985, Robin Nortwood scrive queste parole nel suo libro ‘donne che amano troppo’. 
Ho letto questo libro decine di volte ed era il libro preferito di mia madre.         
Una donna forte, emancipata, assetata di indipendenza e di diritti come solo una settantottina poteva esserlo. Nell’85, mia madre si batteva per la libertà di amare, per i diritti inalienabili degli esseri umani e per tutte le forme di discriminazione che, già negli anni ’80, erano argomenti di assoluta urgenza.             
Mia madre, nel 2006, mi consegnò questo libro come fosse una reliquia sacra. “Leggilo e rileggilo fino a farti sanguinare gli occhi. Fai diventare queste parole le tue e ficcati nel cervello che l’amore è tutto, tranne che privazione.” Lo accettai di buon grado e, da quel giorno, avrò letto almeno quindici volte questo libro.                   

Quando Margareth Atwood, nel suo mondo distopico, faceva credere ai personaggi dei suo romanzo che i sentimenti erano inutili, Robin Nortwood ha spronato un’intera generazione di donne – se non di più – a guardarsi dentro per riuscire a capire cosa davvero volessero dal proprio partner. Uomo o donna che fosse. 

Amare troppo non significa amare molti uomini (e donne) o innamorarsi troppo spesso, o amare qualcuno in modo troppo intenso e profondo. In realtà, significa un attaccamento ossessivo a un uomo (o una donna) e la pretesa di chiamare amore questa ossessione, che finisce per dominare sentimenti e azioni e, pur riconoscendo che sta influenzando negativamente salute e benessere, non riuscire a liberarsene. Significa misurare l’altezza del proprio amore dalla profondità dei propri tormenti. 

Queste due grandi scrittrici hanno utilizzato le parole, attraverso modalità diametralmente opposte, per trasmettere messaggi profondi e viscerali che, forse, nel 2019 ancora non sono poi del tutto chiari.                    
Amare in modo sbagliato o non aver la possibilità di provare alcun sentimento, sono parte di un’ellisse, che pone ai poli di questa i due estremismi. Tutto l’arco, rappresenta ciò che dovremmo scoprire, ciò che abbiamo il dovere di capire e di accettare in quanto esseri umani. 

Oggigiorno, credo fortemente che ci sia un motivo se la cultura del litigio sia quella prevalente.             
Anche nel batterci per ciò che crediamo giusto, spesso dimentichiamo che non deve per forza esistere un ‘lato opposto’ da denigrare. un dualismo di base che ci divide in vincitori e vinti, in giusti e sbagliati. Ma perché? 

Non sarebbe tutto più semplice se, al posto di istigarci l’un l’altro, riuscissimo ad arrivare ad un orizzonte di pensiero comune, capace di appianare ogni divergenza, a favore della pace? Della libertà?                  
Perché è così difficile abbandonare un pensiero egocentrico e pessimistico a favore di un pensiero rivolto all’ascolto e all’empatia?                 
Perché non capiamo che solo l’informazione, la cultura, il rispetto e l’ascolto possono aiutare il cambiamento? 

Io non ho le risposte a tutte queste domande, perché onestamente non so cosa effettivamente ci sia di sbagliato in questo mondo. Credo solo che, a prescindere tutto, siamo tutti troppo impegnati nella ricerca del consenso, da dimenticarci che tante volte anche il dissenso, in quanto tale, spesso è portatore delle più grandi rivoluzioni. E quando parlo di dissenso, parlo della possibilità di andare contro corrente, della volontà di sfidare i tradizionalismi oppressivi della cultura dominante, parlo dell’utilizzare la cultura come arma e non le armi come strumenti di comprensione, parlo della volontà di diffondere la pace e l’armonia come antidoto contro l’odio e la discriminazione. Perché oggi, quello stesso odio e discriminazione, nonostante gli sforzi ci sta infettando tutti. 

Un racconto distopico o forse un presagio, non so cosa abbia effettivamente partorito Margareth Atwood. 
Sono sicura, però, che leggere il racconto dell’Ancella possa essere uno sprono, un monito, un avvertimento e un grande, enorme scossone per questa umanità che, oggi come nel 1985, finge di preoccuparsi del domani a discapito dell’oggi. 

Ve lo consiglio, sempre.

Un abbraccio,

R.

#TheHandmaidsTale